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Arianna Pace, Bernardo Tirabosco,

Sof-fermarsi

27.02.2022 / 13.03.2022

Sof-fermarsi
Arianna Pace, Bernardo Tirabosco
A cura di Bianca Basile

 

Soffermarsi. In una sola parola, tre verbi: fermarsi, soffrire, soffiare. È la fenomenologia di chi affronta un grosso dubbio, che spesso si traduce in un respiro profondo.

Nel continuo brulichio del mondo esterno, chi percepisce una presenza o una mancanza dentro di sé e decide di fermarsi, compie uno sforzo immenso: si prende il tempo e lo spazio per scavare in sé stesso. In questo percorso di risalita dagli anfratti dell’interiorità, il dubbio si illumina poco a poco e può rivelare, una volta in superficie, autentiche sorprese.

L’archeologia lavora con tracce stratificate. Spesso il risultato è il ritrovamento di un oggetto di cui non si conosceva l’assenza. La meraviglia dell’archeologo sta proprio nello scoprire ciò che non si aspettava.

A volte, il vuoto ci definisce più di ciò che ci contiene. Il reperto, l’anello mancante, spesso non trova una mano pronta ad accoglierlo. La sua “casa” è più la buca in cui è stato rinvenuto che non la teca in cui viene esposto e osservato da sguardi superficiali.

Eppure, per lui – come per ogni opera e ogni creatura – è stato fatto spazio, due volte: al momento della sua creazione e nel momento in cui è stato ricollocato. Creare è prima di tutto questo: fare spazio. Rinvenire, ricollocare, rimontare sono gesti che partecipano a questo processo reiterato e continuo.

Secondo Georges Didi-Huberman, nell’impronta, l’uomo cerca l’archeologia del contatto tra il “già-stato” e l’adesso. Cerca un accordo tra simile e dissimile, una memoria tattile nel dialogo tra forma concava e forma convessa.

Questa “archeologia del contatto” è ciò che l’artista cerca tra l’uomo e le sue domande. Sebbene tali interrogativi ci appartengano da sempre, non ne siamo mai coscienti allo stesso modo o nello stesso tempo: sono sepolti tra anfratti poco esplorati dell’interiorità. Col tempo diventano macigni leggeri, trasparenti, modellati dall’esperienza.

A volte, un evento scatena un’intuizione: un pensiero per immagini. Come ha scritto Walter Benjamin, l’intuizione genera un cortocircuito nel lògos, un vortice in cui passato, presente e futuro si mescolano. Dal fondo della coscienza emergono i macigni, che allora si possono osservare, sagomare, comprendere.

I nostri dubbi cambiano con noi. Annotare come si trasformano equivale a tracciare, nel modo più fedele possibile, il nostro profilo interiore.

L’archeologia dell’interiorità è un lavoro duro. Ma quella fatica ci fa respirare più forte, ci fa sentire vivi. E, proprio lì, l’affanno si trasforma in sollievo.